1
10
1
-
https://arxiupmaragall.catalunyaeuropa.net/files/original/17/1744/0000001381.pdf
5793c8b55a952c8c3d8b5fc39ae29f24
PDF Text
Text
Reggio Calabria, martedi 26 maggio 1998
Lezione Magistrale di Pasqual Maragall i Mira
Il mondo ci appare oggi come un villaggio che chiamiamo globale. E' come dire che
abbiamo la percezione di avere spostato più lontano i limiti dei nostri quartieri e delle
strade, grazie ai mezzi di comunicazione, ai viaggi, agli incroci delle razze e alla
mescolanza delle culture.
Senza dubbio, la mia generazione, che ha vissuto nei primi anni sessanta nella
consapevolezza di una progressiva mondializzazione della politica, - al tempo di Kennedy,
Kruschev, di Papa Giovanni XXIII, del primo Castro, quello dei discorsi nella Sierra
Maestra e dell'ingresso a all'Havana - ha l'obbligo di usare alcune cautele alla luce di
quanto è avvenuto dopo.
Preferisco parlare di un mondo aperto piuttosto che di villaggio globale o di città globale;
un mondo aperto ai contatti e tuttavia alle incertezze.
Credo sinceramente che un mondo di città - un'Europa delle città nel nostro caso - è più
attraente, e quello che più importa, più concreto, di un mondo globale.
Parlando di Europa dobbiamo includere una Europa delle Regioni e delle città, perchè le
culture che si sono andate determinando, non sempre sono confinate negli stati nazionali,
quanto piuttosto diventano occasioni di culture nazionali con una lingua, letteratura, e
caratteristiche proprie.
Scozia, Fiandre, Catalogna, Galles, Galizia, Euskadi, Baviera etc. sono esempi in questo
senso. Irlanda, Slovenia, Ucraina e altre, sono esempi di culture nazionali europee che
solamente nel secolo XX - e alcune molto recentemente -hanno ottenuto il loro
riconoscimento di "Stati", il loro status.
Senza dubbio, se vediamo l'Europa dal satellite vediamo una costellazione di punti
luminosi. Non vediamo frontiere, né statali, né regionali. Queste costellazioni sono le
culture costruite, fisicamente esistenti.
Dalla sola osservazione di questa immagine possiamo già apprendere qualcosa di utile sul
mondo, qualcosa che ci rimanda al concetto di villaggio globale. L'organizzazione dei
punti luminosi, riflesso delle città, disegna alcuni percorsi, segnala concentrazioni e
evidenzia i vuoti. Si formano costellazioni dense come il Randstadt, il sud-est Inglese , il
bacino della Ruhr-Reno, il triangolo Genova- Torino-Milano, o la regione metropolitana di
Napoli, culminante di una linea costiera che appare come città lineare, lo stesso che
succede con Barcellona e la costa mediterranea settentrionale spagnola fino al Golfo di
Leòn.
Ogni tanto appaiono stelle solitarie che normalmente corrispondono a capitali di stati, che
sono cioè il prodotto non tanto della aleatoria distribuzione delle popolazioni nelle valli o
sulle montagne, lungo le coste o le pianure , quanto di una volontà razionale di un paese
che si è costituito in stato - o del suo monarca - di ubicare la capitale in un determinato
1
�punto della geografia. Mosca, Pietroburgo, Berlino, Parigi, Madrid, cosi come come
Brasilia, mostrano una localizzazione non tanto casuale quanto logica. La logica di Pietro il
Grande o di Filippo II, come quella di Kubitschev in Brasile, o di nuovo quella di Lenin
nel riportare la capitale a Mosca, era una logica di governo, una ricerca di equidistanza o
baricentro, una ottimizzazione voluta più di un equilibrio raggiunto.
E' possibile che in certi casi sia la desertificazione dell'intorno, provocata da una capitale
potente, più in là e oltre i limiti della sua zona metropolitana d'influenza, quella che
produce il punto luminoso solitario.
Questo fatto ci deve far riflettere. Dimostra infatti contro l'ipotesi iniziale, la forza di
condivisione di sentimenti e idee. Dobbiamo ammettere che la mappa che vediamo dal
satellite, il firmamento inverso che si vede quando si mette a fuoco il pianeta, non riflette
solo forze materiali e spontanee, quanto fattori culturali e politici. Vuol dire che le
frontiere, sebbene non si vedano in questa mappa, agiscono su di lei e la modificano. Vuol
dire che il mondo è anche un mondo di stati.
La scommessa che propongo è che se questo è vero, sia vero anche il fatto che il cammino
che conduce dal mondo attuale di stati, al mondo globale - al mondo aperto, al mondo
senza frontiere al mondo dei cittadini - sia una strada che passa per il mondo delle città e
per l'Europa delle regioni.
In primo luogo: il mondo globale, la città globale, il pensiero che la mia città non esista,
perchè la mia autentica città è il mondo, è un'idea poco utile. Si tratta di un concetto
paralizzante.
Facciamo un esempio: nel "Vertice sulla Terra" di Rio de Janeiro del 1992, da cui si sono
tratte molte cose positive, non si è sufficientemente badato al carattere ambiguo di alcune
delle conclusioni. "Pensare globalmente e attuare localmente" si disse, senza tenere conto
che la gente era abituata a pensare prima di agire e che di conseguenza quello che gli si
stava dicendo era :"Non agire finchè non sia arrivato un ordine nostro, un ordine globale,
frutto di un pensiero globale", che appare qui come un pensiero unico e inappellabile,
uguale al neo liberalismo che ci ha inondato a partire da quel novembre del 1978 in cui lo
stato della California votò in massa la proposta 13ª(tredicesima) contro le imposte sulla
proprietà.
Il 'pensiero globale' commette errori considerevoli. Nel 1974, si annunciò che le risorse
petrolifere sarebbe durate 20 anni. Siamo già a 24! Altro errore: ci avevano annunciato che
la popolazione globale avrebbe cessato di crescere nell'anno 2050 con all' incirca 15
miliardi di abitanti. Ora pare che il tetto si sia abbassato a molto prima, al 2015/2020, e con
molti meno abitanti. [Sono notevoli i danni che la coppia Malthus-Ricardo hanno causato
nelle nostre menti impressionabili, nonostante si possa pensare che i loro avvisi allarmanti
abbiano precipitato le soluzioni per i problemi che misero in luce. In questo caso,
considereremo i loro eccessi teorici come buone medicine.] Fortunatamente, in quello
stesso conclave di Rio, si disse un'altra cosa contraria alla prima : "Fate localmente tutto
quello che lì potete fare " volendo con questo dire : si eviti il trasporto di energia.
Questa affermazione coetanea e coincidente con il preambolo del trattato di Maastricht che afferma che l'Unione Europea è una unione ogni volta più stretta tra popoli dove tutto
si farà il più possibile vicino ai cittadini - è nella realtà un proclama rivoluzionario che
2
�sconvolge la constante tendenza delle idee verso un'universalità ingenua, soprattutto a
partire dal 1789.
In molte occasioni la ben intenzionata universalità delle nostre aspirazioni, quasi direi la
sua precipitata universalizzazione, ha dovuto essere frenata dalla dea storia che con la
peggiore perversione si avvalse dei più efficienti particolarismi per farci retrocedere al
punto di partenza: la peculiarità della razza, dell'etnia, della religione, della lingua fino a
quella dell'accento dialettale; il 'Cainismo' delle città divise e delle famiglie opposte. In
Bosnia le tre comunità chiamate etniche appartengono alla stessa razza e parlano lo stesso
idioma, cambiano solamente religione e inflessione.
A questo punto voi vi chiederete cosa ha a che vedere l'architettura con tutto questo. Vi
potrei rispondere con una boutade, ma una boutade veritiera, quella che il combattimento
tra Croati e Bosniaci a Mostar si rese pressoché irreversibile solo quando i Croati del
quartiere Ovest bombardarono il ponte vecchio (lo Stari Most) che li univa al quartiere
mussulmano dell'Est. Solo cioé quando saltò questo pezzo di architettura.
Ma, aldilà del tragico aneddoto, ancora oggi da risolvere, l'architettura ha a che vedere con
quello che vi stavo raccontando, perchè l'architettura è l'arte di costruire la città e la città
sta tornando ad essere ora l'oggetto e il centro d'attenzione del mondo. Sono trascorsi più di
20 secoli dalla nascita della città come il luogo della Polis e 15 secoli da cui scomparse
come tale, in quella che viene chiamata la lunga notte medioevale. Per riemergere con
timidezza e arroganza ma sempre fugacemente nel basso medioevo catalano-aragonese,
nella Hansa e successivamente nel Rinascimento italiano, e per essere in ultimo ridotta alla
categoria di "luogo di provincia" a partire dal secolo XVI. In quell'istante, i due mondi, il
Vecchio e il Nuovo, iniziarono a costruire drammaticamente il mondo globale, un mondo
di nazioni; la scienza iniziò a pensare al pianeta Terra come parte dell'Universo e la
filosofia morale, più tardi, nel XVIII, iniziò a pensare alla sua organizzazione politica.
Due cose debbono esser chiarite qui. Una: come possiamo sappere che l'attuale
globalizzazione sia la definitiva e non un'altra ingenuità? Secondo: perchè si suppone che
l'architettura costruisca città e non semplicemente case ed edifici?
L'attuale globalizzazione non è "la" buona né "la" definitiva. E' una in più delle pulsioni
universalizzatrici che si sono andate succedendo ciclicamente nel corso della storia. Alla
fine del XIX tanto i finanzieri come i proletari erano internazionalisti. Perfino gli
aristocratici, come lo era per esempio il Barone de Coubertin.
L'Universalismo di Marx in quell'epoca portò ad un importante grado di conoscenza dei
suoi propri limiti quando propose che solo la scomparsa delle nazioni - per la quale non si
fissava una data - avrebbe preparato lo scenario di una società mondiale più giusta.
Ma Marx ignorava che tutta l'economia politica classica alla quale apparteneva - insieme a
Smith, Malthus e Ricardo - era destinata ad essere breve. La costruzione del nuovo mondo
e in concreto il formidabile sviluppo dell'agricoltura nordamericana, cosí come le
successive ondate di emigrazione europea, portarono ad una crescita della popolazione
nordamericana non indigena dai 4 milioni - nel momento della Rivoluzione francese - ai
125 milioni all'inizio della Prima Guerra Mondiale e ridussero per esempio la popolazione
irlandese di un 25 % dopo la carestia del 1843. Tutto questo sconvolse le previsioni
catastrofiche, sebbene redentrici, di una classe operaia universale, impoverita e cosciente.
Questa classe fu condotta in Europa al cospetto delle nazioni che hanno portato il nostro
3
�secolo verso una tragedia molto superiore a quella che il secolo XIX aveva previsto. E ad
una società di classi medie.
Anche Keynes nel 1930 e poi di nuovo senza esito nel 1944/45, aveva difeso la possibilità
di una moneta mondiale e di una autentica banca mondiale, elementi di quel governo
mondiale che da Kant in poi esisteva virtualmente in forma di proposte o ipotesi.
Pensate che oggi stiamo assistendo solo ad alcuni tentativi, peraltro difficili, di creare una
politica economica europea che possa accompagnare la moneta unica, che è già nata, e di
dotare la commissione europea di un Presidente eletto, e quindi di iniziare a delineare un
vero e proprio governo europeo.
La lezione di umiltà che abbiamo contrapposto all'audacia e alla stupidità delle nostre
pretese collettive, è stata in questo secolo schiacciante.
Si tratta di ammettere che, al momento, il mondo globale si possa costruire solo per pezzi,
regionalizzandolo nella sua organizzazione e di sapere che questa regionalizzazione si
attesterà al livello che stabiliranno le economie più grandi come volume economico
minimo. La creazione degli Stati Uniti nel 1776 sancì per i due secoli successivi la
necessità dell'Unificazione europea. Potevamo pensarci prima! Perchè non ce lo
chiediamo?
Nel frattempo, specialmente nei periodi di pace e di crescita economica, il sistema globale
tende a decentralizzarsi. Riduce le restrizioni obbligate dall'equilibrio del terrore e la
nazionalizzazione della Polis, determinata da questo stesso equilibrio.
In ciascuno stato-nazione, le città soddisfano in questi periodi una porzione maggiore di
domanda pubblica, l'educazione e la sanità migliorano a spese della difesa, le imprese
superano le frontiere e creano uno spazio multinazionale nel quale le città si offrono come
sedi della loro espressione, competendo tra loro per ottenere il maggior volume di
investimenti produttivi e di infrastrutture tecnologiche. Il mondo si civilizza.
Ma è un mondo globale solo per alcuni e in forma limitata. E' soprattutto un mondo di
città, di luoghi dove le imprese da un lato e le istituzioni pubbliche dall'altro, cercano di far
fronte alle domande e ai problemi del genere umano.
Sembrerebbe logico puntare su un mondo di città ragionevolmente regionalizzato in unità
più grandi (Unione Europea, Mercosur, Gruppo andino, Nafta, etc.) e dotato di regole di
comportamento riconosciute da imprese e stati.
Anticipo che questo non significa la scomparsa degli stati quanto la loro trasformazione da
entità produttive e difensive, in enti regolatori dei diritti, in soci attivi di coalizioni
transnazionali, cosa che già comincia a succedere molto chiaramente nell'Italia di Prodi e
Bassanini e, con maggiori difficoltà in quella di D'Alema, D'Onofrio e Cacciari, cioé a
dire, l'Italia della riforma amministrativa e quella della riforma costituzionale.
Questa è la spinta universalizzatrice che ci possiamo permettere. Un mondo di città
regionalizzato per grandi aree. Però senza dubbio un mondo di città. In un altro modo la
gente non lo accetterebbe. Non lo accetterebbe perchè lo sentirebbe come un mondo
distante e lontano dai suoi problemi. "Globalizzazione" e "localizzazione" in questa
4
�accezione si danno la mano. E' necessario inoltre un secondo chiarimento. Le città che
compongono questo mondo parzialmente globalizzato sono l'oggetto reale dell'architettura.
In questo seguo i maestri. Quelli del Rinascimento, quelli del Movimento Moderno e quelli
di oggi: Oriol Bohigas, Richard Rogers e Renzo Piano.
E obbedisco alla mia personale esperienza. A Barcellona, costruire case nella degradata
città vecchia dei primi anni '80 non sarebbe servito a nulla se non si fosse operato
contemporaneamente nel settore sanitario e della sicurezza.
Pensate che noi arrivammo al governo della città nel 1979 con l'idea sbagliata che i prezzi
bassi delle case nella 'Città Vecchia'- il centro storico, il nucleo antico di Barcellona fossero una benedizione e iniziammo a fare piani urbanistici aumentando al massimo lo
'zoning' per le attrezzature pubbliche. Fu un errore.
Pensavamo che questo si sarebbe dovuto realizzare consentendo agli abitanti della Città
Vecchia di viverci grazie al mantenimento dei prezzi bassi e alla nuova offerta di servizi.
Altro errore. Non ci rendevamo conto che i prezzi erano bassi perchè la gente se ne andava.
Reagimmo così contro una 'gentrification' o innobilimento che né si era prodotto né si
sarebbe prodotto da se stesso. La gente se ne andava a l'Hospitalet o a Sant Andreu - verso
cioé quartieri metropolitani o periferici del comune - per un processo di maggiore
benessere in quanto i potevano aumentare i salari o perché si otteneva il doppio lavoro
nelle famiglie. Solo gli anziani rimanevano per mancanza di mezzi e di energie per il
trasferimento in luoghi lontani da quelli dove avevano trascorso tutta la loro vita.
La popolazione della Città Vecchia è diminuita di un 30/40%. Quei luoghi familiari e
carichi di significato si andavano desertificando. I tagli pubblici senza un corrispondente
reinvestimento divenivano fattori di abbandono. La criminalità andava aumentando. I vuoti
urbani venivano occupati in parte da gente che mancava dei mezzi per mantenere un livello
minimo di vita commerciale e pubblica dei quartieri che non fosse quella di un commercio
illegale, difensivo, e si costituivano dei 'ghetti' di diversa natura.
La teoria dello sciatore era la soluzione: non solo urbanistica né solamente sicurezza, ma
entrambi. Urbanistica più sicurezza, ora l'una e poi l'altra. Servizi sociali, più pulizia.
Politica commerciale più residenza. Prevenzione prima della repressione, ma in ogni caso
prevenzione e repressione. Nessun dogmatismo, nessuna formula magica. Investimento
pubblico, investimento privato. Intervento pubblico e aiuti privati. Guerra totale alla
miseria.
All'inizio fu la sconfitta, molto dopo pareggiammo e solo alla fine cominciammo a vincere.
E quando stavamo cominciando a vincere, esplosero le mine dimenticate di antichi
pederasti o il fariseismo dei contabili che si scandalizzavano perchè si compravano e
vendevano case a prezzi differenti. Così come molto prima si erano scandalizzate le
istituzioni di beneficienza quando noi avevamo iniziato a chiudere i pensionati insalubri
dove erano lasciati a morire per pochi soldi anziani da loro sconosciuti e si vide come
rapidamente aumentava la richiesta di poter mangiare e dormire altrove.
Governare la città, questo è certo, richiede molte volte di nascondere problemi laceranti al
fine di risolverli senza offendere troppo la sensibilità pubblica. Perchè negarlo? Ma nella
maggioranza dei casi governare la città significa svelare al pubblico realtà occulte. Il
governante pone la città di fronte allo specchio delle sue stesse miserie,
5
�di realtà conosciute ma sottaciute, dimenticate, occultate.
Una casa nuova in un quartiere pericoloso non è una nuova casa. Questo è la lezione che
abbiamo imparato. Queste case nuove si fanno vecchie rapidamente, così come lo sono i
volti invecchiati di bambini e bambine costretti a lavorare anzitempo nei paesi arretrati.
La lezione è che la ricchezza e la miseria colonizzano il territorio. La ricchezza, con i suoi
prezzi alti e con il taglio minimo delle particelle, e se necessario con le polizie private,
come a Caracas; la miseria invece mediante un'arma ugualmente efficiente: la paura della
classe media verso l'insicurezza e la eccessiva diversità.
La verità è che nella Barcellona tollerante e liberale si sono ridotti i crimini da un 25 a un
15% in dieci anni, come dire quasi alla metà, mentre nella Londra della legge e dell'ordine,
aumentavano, sempre in dieci anni, fino a una volta e mezza. Ben lo sa Tony Blair, che ha
trasformato questo tema in cavallo di battaglia della sua campagna elettorale. La London
School of Economics aveva dimostrato che il puritanesimo radicale della Signora Thatcher
e del suo governo, condannava gli emarginati a rimanere senza rimedio nella loro
condizione.
Soffermiamoci per un momento sul carattere colonizzatore del territorio che possiedono sia
la ricchezza che la miseria, perchè questo ci porta ad una interessante riflessione
metodologica.
Questi effetti - di comportamenti di alcuni cittadini sopra quelli di altri - gli economisti, me
compreso, li chiamano esteriorità, perchè sono fenomeni che si producono al di fuori,
all'esterno dei confini del modello. Queste restrizioni, in ogni sapere scientifico - non
voglio spiegare a un pubblico di architetti che un modello in scala 1 a 1 aggiunge qualcosa
alla collezione degli oggetti esistenti, ma nulla alla scienza che li studia - questi limiti,
presuppongono in economia, l'inter-indipendenza tra le funzioni dell'iutilità e della
produzione dei singoli individui e delle singole imprese rispettivamente. Tutta la teoria
dell'equilibrio di mercato si basa sull'ipotesi che ogni persona ottimizza le sue scelte di
consumo e di produzione senza alcuna relazione con la forma delle funzioni di utilità e
produzione degli altri partecipanti al mercato. Quando questo non succede, è allora che la
teoria ammette i limiti di mercato e la possibilità che si giustifichi l'intervento pubblico. E
non è giustificazione da poco. Le esteriorità positive e negative, cioè le contiguità tra gli
individui che producono benefici imprevisti (una maggiore consapevolezza nella città
rispetto alla vita isolata, per esempio) o ulteriori pregiudizi (insicurezza cittadina etc.)
queste esteriorità, ripeto, non sono un elemento insignificante per costruire una forte teoria
dell'azione pubblica e della Polis.
Richiamo la vostra attenzione sulla necessità di acquisire una certa dose di modestia
davanti al sollevarsi della polvere dei sermoni su quello che si dovrebbe o non si dovrebbe
fare, o semplicemente sulla necessità di realizzare (a Roma, per esempio, questi
ammonimenti sono ricorrenti). La gente ha molto chiaro che non tutto ciò che è pubblico è
buono. Alcuni lo hanno fin troppo chiaro, come quel incaricato di aprire la strada per la
bocca del cratere del Vesuvio, che passate le cinque del pomeriggio, dicesse per
giustificari: "Roma ha detto alle cinque e basta; già si sa, politici, l'Italia, tutto il mondo",
che sarebbe come dire: viviamo nel regno dell'assurdo, tutto quello che viene dall'alto è
cattivo.
6
�Fortunatamente quando una paese ha raggiunto a fatica questa coscienza del rigore
necessario nell'azione pubblica - a volte conquistata drammaticamente per la temporanea
carenza del settore pubblico, come è successo in Catalogna prima della Seconda
Repubblica, o posteriormente alla Guerra Civile - la corazza della auto-esigenza si
trasforma in attitudine propositiva convincente e feconda in quanto si danno le condizioni
per l'azione.
Questa è l'origine come credo, dell'ottimismo esigente dei Bohigas, Sola Morales,
Acebillo, Busquets, Llop, de Lecea, che si è riversato sulle strade e sulle piazze di
Barcellona a partire dal 1980.
Questo è anche quello che spero stia accadendo attualmente in Calabria e in generale nel
sud dell'Italia ora che gli eccessi di uno statalismo male inteso e il malanno della
'collusione' e della 'protezione' privata iniziano a cedere il passo alla libertà creativa. Un
nuovo rinascimento si presenta nell'Italia totalmente europea di oggi, un'Italia che risolve
soddisfacentemente una equazione che è quella della Spagna, cioè quella di riuscire ad
edificare una società moderna in uno spazio attraversato da molti paralleli come quelli che
vanno dalla Germania al NordAfrica. Il ruolo delle città in questo processo sta divenendo
decisivo.
Voi state culminando il vostro periodo di gestazione di nuove idee, il periodo della chimica
del "consensus building" (costruzione del consenso) molto più lungo e lento di quello della
fisica delle trasformazioni urbane. Le opere nonostante a volte ci sembrino dilungarsi
un'eternità, sono rapide se confrontate con il tempo impiegato nella costruzione del
consenso sui grandi progetti.
Gioia Tauro, il Ponte sullo Stretto di Messina, la terza carreggiata dell'autostrada, l'arrivo
dell'Alta Velocità etc. saranno stati progetti lungamente attesi, ma non per questo dagli
esiti meno rivoluzionari nel momento della loro realizzazione, né meno carichi di effetti.
Soffermiamoci un momento su questo punto prima di entrare nella parte finale della
lezione.
E' probabile che la giustizia storica consisterebbe in una specie di distribuzione salomonica
dei grandi progetti lungo le decadi e nei diversi territori, forse a leggero vantaggio di
territori lontani dal centro del sistema delle città per compensare il fatto che la vicinanza al
centro porta con sé una densità di relazioni che rende meno impellente lo shock esterno o
istantaneo delle grandi iniziative. (Dico leggero vantaggio per non scostarmi da una
modestia metodologica in rispetto all'intervento pubblico).
Questa distribuzione ideale dovrebbe essere consapevole di una specie di diritto umano,
mai formulato e tuttavia presente nella storia e che genera, quando assente, molte
ribellioni, secondo mil quale tutti dovremmo aver vissuto un momento di speranza e di
qualche realizzazione nel corso della nostra vita.
Il fatto è che questo ciclo è lontano dal prodursi. La generazione del mio nonno paterno
(1860-1911) non arrivò a vivere nessuna grande guerra. Karl Polanyi arrivò a battezzare
"100 anni di pace", quelli che trascorsero dalla fine dell'ultima guerra napoleonica all'inizio
della prima guerra mondiale. Inutile insistere sul perchè di un generalizzato
internazionalismo durante il cambio di secolo.
7
�Differentemente la generazione di mio padre che nacque nello stesso 1911, visse in seguito
ad una Guerra Mondiale, una Guerra Civile terribile (la prima nella quale una grande città
fu bombardata dall'aria - Barcellona - e in cui un'altra città fu totalmente distrutta dall'aria Guernica - ), e una seconda Guerra Mondiale, nella quale due grandi città furono rase al
suolo da una sola bomba.
Ricordiamo qui Kenzaburo Oè, Premio Nobel giapponese che scrisse sull'assurdo di
Hiroshima per l'assurdo presente nella sua vita familiare. Credo che Oé disse di Hiroshima
che la tragedia della scomparsa della città è che la morte di una persona non impedisce la
sua sopravvivenza nella memoria di quelli che restano, ma la morte di una città equivale
alla scomparsa della sua stessa memoria. Muore ogni persona e ognuna di quelle che hanno
vissuto con lei. Sparisce la memoria.
E' chiaro che non vi è giustizia distributiva nella storia e senza dubbio per questo dobbiamo
sperare nel passaggio del treno della fortuna e se è necessario costruire alla fortuna un
appiglio. In questo consistono i grandi eventi: qualche volta non sono altro che segnali di
una era fortemente attesa, scuse che la storia si prende per presentarsi all'improvviso,
splendida, con il dono dei sogni realizzati.
Torniamo di nuovo all'architettura e al suo appuntamento con la storia. La migliore notizia
per le vittime del terrore basco, incluse le famiglie dei terroristi, è l'inaugurazione del
Museo Guggenheim di Bilbao, e naturalmente, l'evoluzione delle cose in Irlanda del Nord.
Il museo di Gehry e la nuova metropolitana di Foster, hanno rotto il maleficio di una città e speriamo anche di un paese solo visto in funzione della tragedia e della morte - che
comincia di nuovo ad essere immaginata come lo scenario della costruzione e della vita,
frustrando cosi l'ossessione paurosa che è tecnicamente l'oggetto di tutta la politica del
terrore. La Expo di Lisbona, i Giochi di Barcellona, il treno ad alta velocità di Siviglia, in
occasione della Expo del 92, per menzionare altrettanti momenti nei quali la scintilla della
contingenza sembra aver messo in marcia il motore dell'evoluzione.
Fui uno dei pochi catalani che si rallegrarono pubblicamente del treno ad alta velocità
Madrid-Siviglia nonostante sapessi che il treno Madrid-Barcellona e quello tra Barcellona
e la frontiera francese fossero più redditizi e conoscessi l'eccessiva parsimonia che questo
progetto ha nei programmi di Madrid e di Parigi. Accettai come buona la motivazione di
Felipe Gonzàlez, nel senso che questo treno si sarebbe fatto ugualmente e che al contrario
non era così evidente che il treno Madrid-Africa non si facesse per una scusa del genere.
Difesi l'idea che per Barcellona fosse interessante non essere un "cul-de-sac", non
costituire il nuovo Sud francese, ma piuttosto un territorio di passaggio per l'asse
centroeuropa-penisolaiberica, interpretando che questa fosse - come è - una riserva di
ricchezza culturale ed economica per lo sviluppo della mia città e non solo una zavorra o
una minaccia, come alcuni ritengono e, diciamolo pure, come la storia ha disgraziatamente
più volte dimostrato. A Barcellona interessa una Penisola Iberica ricca e felice e non il
contrario; una Spagna testa di ponte verso l'America Latina e il NordAfrica e non
introflessa e lamentosa.
Se le valli dei Pirenei, precedentemente in conflitto tra loro, hanno imparato a collaborare;
se durante la cerimonia dell'apertura del tunnel Puymorens, lungo la linea BarcellonaPuigcerdà-Tolouse erano presenti i sindaci o 'consuls' di Andorra che sono favorevoli ad
altri tunnel e ad altri assi, le città non possono essere da meno. Lo dico perchè Reggio
8
�Calabria deve lottare strenuamente per il ponte sullo Stretto, indipendentemente dal punto
per il quale passerà esattamente. Non è un problema, credo, di poca rilevanza, ma di
fertilizzazione di tutto l'interland. Il mondo delle città sarà molto competitivo e non
ammette rimpianti nè perdona inattività. E' necessario scegliere la miglior soluzione e
scommettere su quella. E, se non è buona, cambiarla.
Si tratta anche di agire e spiegare. La gente vuole i fatti, ma allo stesso tempo, chiede la
loro giustificazione. Vuole vedere e toccare, ma sente l'esigenza anche di stare ad ascoltare.
In una delle ultime sessioni dei miei seminari all'Università di Roma ho potuto constatare,
pochi giorni fa, la profonda inerzia di molti anni di pessimismo accettato, anche di fronte
all'evidenza che le cose stiano cambiando. Proposi allora un'analisi lucida delle difficoltà e
virtù di Roma come preambolo per un teorico Piano Strategico.
Dal punto di vista passivo la carenza di un sentimento del presente come anticipatore del
futuro; la carenza di spirito combattivo e di una "leadership" semplice. Dal punto di vista
attivo, a parte i noti punti forti di Roma, una riflessione sulla sostenibilità ed un'altra sulla
vocazione della città.
Può darsi che, in alcuna misura, queste idee siano valide anche per altre città italiane che
conosco meno.
Il passato ha un così importante peso che il futuro costituisce un tema minore.
A paragone con Madrid e Barcellona, Roma vive il peggiore dei due mondi: è la capitale,
già lo abbiamo visto, colpevole di tutto e, senza dubbio, per questa stessa ragione, lo Stato
non investe in essa più di una piccola percentuale di ciò che i romani considerano il
minimo necessario. D'altra parte, essendo una città che dipende molto da se stessa,
incomparabilmente più di Madrid o Parigi, non può formulare una mistica o una epica di
città-città, di "self-made city", come Barcellona: nessuno lo crederebbe, almeno all'inizio.
La sovrapposizione di poteri, religioso, cultural-archeologico e municipale, anche essendo
quest'ultimo molto forte e più legittimato che mai, non facilita le cose.
In cambio Roma dovrà riflettere con più tranquillità sul fatto che nessuna città si è
dimostrata sostenibile a lungo termine alle attuali condizioni. Non parliamo
incessantemente di sostenibilità? Bene, Roma è più sostenibile - nei limiti delle sue
condizioni, non certo ottimali - di altre città che oggi sembrano ben inserite. Roma conosce
l'arte di invecchiare dignitosamente ed è probabile che quest'arte si renda necessaria alla
fine per quasi tutte le grandi città. Per iniziare i romani possiedono un alto grado di
capacità nel convivere con un mezzo intoccabile, stretto e carico di simboli; ed una
notevole capacità di sfruttare lo spazio/tempo. Si dovrebbero trarre maggior profitti da
queste qualità.
Detto questo, è evidente che nessuno possa sopravvivere solo conservando. In assenza di
nuove costruzioni la città non si mantiene, né può sopravvivere ciò che è vecchio. Tutte le
città devono trovare la loro propria formula per combinare i simboli esistenti con i nuovi.
Senza questi ultimi l' antichità si converte in ripetizione.
In ultimo, nessuna città del mondo ha tanti crediti come li hanno le città italiane per capire
e rappresentare un mondo che è sempre di più un mondo di città. I francesi, gli spagnoli,
9
�gli inglesi possono saperne di più di nazioni, finanche di imperi, perchè i loro furono più
recenti. Però nessuno è in grado di insegnare molto né a Roma né a nessuna delle città
italiane rispetto a quello che una città è e significa.
E vi assicuro che il futuro delle nazioni si giocherà sull'efficienza dei suoi sistemi di città.
L'esperienza di un Sindaco non si può spiegare del tutto senza una confessione, tra le
molte.
Si tratta dell'emozione con cui per opera dell'arte dell'architettura e della costruzione
appaiono nella città nuovi simboli destinati a durare.
Non mi riferisco tanto alla funzione, quanto al valore di questi artefatti costruiti. Piazze o
case, alberi piantati in un determinato luogo e ordine, monumenti nuovi, restaurati o
riutilizzati, arredo urbano più o meno stabile e resistente, scuole, marciapiedi e passeggiate,
torri di comunicazione, muri di contenimento, dighe, teatri: tutti questi rappresentano il
teatro della vita, messaggi lanciati più o meno coscientemente come bottiglie nel mare al
corso della storia, manifestazioni a volte eccessive del nostro passaggio per la città, ma in
tutti i casi visibili, corporee, criticabili, azioni divenute oggetto che migliaia di occhi
guarderanno con rispetto o ignoreranno, che migliaia di mani e piedi calpesteranno, o
toccheranno, o cambieranno, e che fanno della città uno dei pochi concetti resistenti del
nostro presente e del nostro futuro, uno dei concetti più universali, perchè universale e
comune è l'esperienza che di esse abbiamo.
Quindi se c'è una professione che detiene la chiave del suo cambiamento, con il permesso
del suo 'sovrintendente', eretto a garante di quei valori, drammatico dovere virtuale e non
attuabile, questa è la vostra, che rende voi e la vostra professione uno dei sogni più diffusi
e ambiti tra i giovani, al livello degli attori di quella costruzione immateriale ed allo stesso
tempo magica che è la rappresentazione scenica. Non è un caso che il Congresso della UIA
di Barcellona del 1997 si sia convertito in un rito dualistico tra gente comune e 'vedette'
tutti della stessa professione.
Devo dire che sono molto grato a Norman Foster e Kenneth Frampton per aver capito al
volo di cosa si trattasse e aver accettato di convertire la Plaza dels Angels, detta anche de
Las Nacions, davanti al bianco MACBA - il Museo di Arte Contemporanea - nello
scenario del miglior dibattito architettonico. Probabilmente nessun congresso di
architettura potrà privarsi d'ora in avanti di un dibattito sulla dura pietra cittadina e il Foro
e l'Agorà torneranno alla loro funzione.
Il primo Presidente della Generalitat restituita, Josep Tarradellas, insisteva tra ironia e
sincerità con il suo sorriso di contadino così difficile da decifrare, ma così seduttore, nel
fatto che avrebbe desiderato essere sindaco: "Perchè Lei, signor Sindaco - diceva - le opere
le vede e le tocca e Lei incontra la gente per la strada, mentre io, sa che faccio? Io mi
limito a firmare decreti!"
Manifestava così la sua amarezza non priva di maestosità, di rappresentante di un potere
astratto, come è la nazione, che non è corporeo, che esiste - e talvolta con grande forza! ma solo nella mente della gente e nei confini falsi e irreali che nelle mappe separano un
paese dall'altro. Forza immensa che ha permesso i maggiori progressi e ha causato le
maggiori catastrofi, però forza ideale e non realtà tangibile.
10
�A Barcellona, dopo 40 anni di dittatura arrivammo in un dato momento, che non fu breve,
ad una continua euforia di impeto costruttivo. Come una primavera che si fa aspettare e
quando arriva sorprende per la sua intensità e la sua bellezza, come quelle gardenie che
tardano tanto a fiorire, che non terminano mai di sbocciare e che nel momento in cui lo
fanno esplodono tutto il possibile in quantità, aroma e nel bianco dei loro petali.
Questo accadde a Barcellona....e continua ad accadere. Ho trascorso otto mesi fuori della
mia città, vivendo a Roma e realizzando quattro viaggi in Americalatina e Nordamerica. In
occasione di questi spostamenti così come per Natale e Pasqua sono tornato a Barcellona.
Ogni volta ho trovato delle novità.
La sensazione che questo produce è difficile da descrivere. Si è giunti negli ultimi 20 anni ,
a valutare Barcellona in termini di migliorie. L'occhio si è abituato non tanto a delle forme
quanto a dei ritmi di evoluzione delle forme. Ritmi sottomessi a principi di qualità talvolta
violati, indubbiamente anche violentati, come quando cade il gancio di cemento di Chillida
o i pezzi di calcinaccio di pietra di Montjuic nell'Eixample, o quando una Torre delle
Comunicazioni, la piccola, quella della Compagnia Telefonica a Montjuic, si trova
duecento metri troppo all'interno di uno scenario; torre che doveva servire a segnare più
all'esterno il punto di riferimento rispettoso e utile.
L'altra torre delle Telecomunicazioni, quella di Foster, risultato di un attento processo di
partecipazione professionale e sociale e quindi di selezione, condotto da Juli Esteban e
Joan Busquets, è meno fuori scala di quanto possa apparire. Un mio amico filosofo mi
raccontava che coprendola alla vista con la mano era possibile recuperare la scala della
Serra di Collserola e l'equilibrio del suo "skyline", che altrimenti risulta miniaturizzato e
ridimensionato dall'enorme rilevanza della torre. Ed è vero: potrete sperimentarlo la
prossima volta che vi recherete a Barcellona. Senza dubbio la torre aldilà della sua
originalità ed eleganza che supera l'immagine eccessivamente funzionale di altre torri del
genere, è pensata alla scala di un'altra e diversa città, più grande di quella che si può
osservare da questo lato della Serra: corrisponde alle dimensioni della città metropolitana,
la città di 3-4 milioni che circonda la Serra da entrambi i lati. Adesso la torre ci orienta con
sicurezza da lontano quando torniamo a casa dal mare o dalla montagna. E quando siamo a
casa ci ricorda che la città vera in cui ci troviamo non corrisponde a quella che vediamo.
Lo dico molto a mio svantaggio perchè sono tra coloro che credono che una città è più
difficile da governare se non la si vede. Tanto è così, che proposi di trasferire il Consiglio
Plenario del Comune all'ultimo piano dell'edificio "Novissimo", una volta soppresse tre dei
dodici piani e e recuperato lo skyline della città vista dal mare. Ho pensato sempre che il
pericolo delle torri, tanto quella delle Comunicazioni come quella della Villa Olimpica,
fosse di stabilire una competizione ripetitiva di questi artefatti, dei quali ogni generazione
ne avrebbe dovuto costruire alcune, pochissime, "cum grano salis". Manhattan e San
Gimignano non sono fenomeni facilmente replicabili.
Gli incidenti architettonici singolari, quando si pongono in un intorno caratterizzato dalla
mobilità sono meno drammatici o per meglio dire, sono atti di un dramma che non finisce
lì, che continua, che non inquieta per la sua irreversibilità.
La fiducia della città verso se stessa diviene allora immensa. L'opera pubblica assume un
credito quasi infinito.
11
�Sono molte le emozioni positive sommate: i giardini di Elias Torres in Villa Cecilia o il
Parco di Beverly Pepper; molte nuove terrazze sulla città, come il poderoso podio di Gae
Aulenti ad ovest di Barcellona, nella uscita del Museo Nazional d'Arte della Catalogna o il
Parco del Migdia, un po' più su, o ancora i bordi laterali del Cinturòn di Acebillo e Manuel
Ribas Piera nella Ronda del Dalt, con viste inedite sopra il piano di Barcellona, e verso le
pendici della Serra che lì iniziano ad inclinarsi, o l'operazione di riqualificazione di punti
della città di scarsa caratterizzazione, come la Piazza del General Moragues, vicino al
ponte di Calatrava, dove la gente dimostrò tutto il suo entusiasmo quando lo scultore
Ellsworth Kelly salì sulla sua sommità a salutare, e che lo fece esclamare: " è la prima
volta che uno scultore viene acclamato come un cantante". Tutto ciò, in breve tempo, ha
fatto della città una realtà poliedrica, come quella di un caleidoscopio.
E' stata ed è un' epoca entusiasmante che gli dei, lo Stato, gli architetti hanno regalato alla
città .., un epoca però che noi (e qui includo la città e gli architetti alla comunità
committente e artefice) abbiamo desiderato ardentemente per decenni, decenni di silenzio,
di frustrazione, di disegni e di ricerche che, senza dubbio, servirono a cristallizzare la più
apprezzata delle gioie dell'ingegneria sociale: il consenso sul progetto, sui grandi progetti.
Mi rendo di trovarmi ad accettare indirettamente che la fase attuale della costruzione e
dell'architettura italiana abbia qualcosa di inevitabile, ma speriamo in quello che i cattolici
chiamano Avvento, oscurità premonitrice e necessaria, rumore di un computer che
computa preventivamente , ansia del giovane che tuttavia non riesce nella realizzazione
matura dei suoi progetti e questo dopo molte vecchiaie e senilità, dopo molto classicismo,
nel paese della memoria, del già fatto, dove il necessario contributo di originalità nella
quale risiede tutta l'arte diviene una prodezza quasi impossibile.
Prendetela come una provocazione amichevole di un "exconsul" della provincia Laietana.
Exconsul che oggi si domanda se i tempi non ci preparino nella nostra città un castigo
futuro, una ricompensa negativa a tante emozioni vissute, a tante realizzazioni in poco
tempo di sogni antichi: un riposo obbligato o dettato per tutti coloro che possono avere la
sensazione di aver già dato alla città, da livelli di governo più alti, tutto quello che la città
si meritava.
La maggior parte delle cose nuove che si vedono a Barcellona sono posteriori al 1992: il
parco del nodo della Trinidad, l'Hotel Arts, l'Illa Diagonal, la Plaza de las Glorias, il Port
Vell, e la Rambla del Mar, il MACBA, il CCCB, i nuovi spazi nella Città Vecchia, il
Museo Barbier-Muller, la riqualificazione del Monastero di Pedralbes, il gotico e il
romanico nuovamente installati nel Museo Nazionale di Catalogna, il Teatro Nazionale il
lento Auditorio di Moneo ancora in costruzione, l'incendio e la ricostruzione del teatro
Liceo, la rivitalizzazione delle strade automobilistiche (Aragon-Guipuzcoa, Meridiana,
Gran Via, Mistral) con marciapiedi ampliati tramite la riduzione della carreggiata centrale
di traffico che si è potuta realizzare grazie alle Ronde (con un abbassamento sul livello del
traffico del 15 %) e il proseguimento della Diagonal verso il mare, il recupero delle aree di
antiche fabbriche per la costruzione di nuovi complessi residenziali, le scale meccaniche a
cielo aperto nei quartieri alti (Carmelo e Città Meridiana), il World Trade Center, e così via
dicendo.
Ma non sono venuto a Reggio Calabria a recitare né un memoriale di elogi, né uno di
desideri incompiuti della mia città, sebbene siano molte le cose che ai livelli più alti di
governo si sarebbero dovute fare in questo periodo - e non si sono fatte - per accompagnare
dall'alto lo sforzo della città, soprattutto sul terreno dei trasporti e delle attrezzature
12
�logistiche e nell'approvazione della nuova Legge Municipale e di tutto quello che essa
rappresenta. Senza dubbio ad una città che migliora tanto e tanto in fretta accade di essere
frenata dall'esterno. Ma essa stessa non ha smesso di migliorare e il freno esterno prima o
poi sparirà.
Spero solo che sappiano che questa città da tanti considerata come modello, questa città
della quale Andrea Rinaldi ha detto con eccesso evidente: "Mentre l'Italia insegue
dormendo il sogno del suo glorioso passato...mentre in Francia l'architettura in piena forma
si palesa in isolate opere monumentali... mentre a Berlino l'IBA e le trasformazioni in atto
dopo la caduta del muro si evidenziano alla scala dell'edificio inteso come volume capace
di ordinare lo spazio circostante, a Barcellona il processo si inverte e le trasformazioni si
originano prima a livello dello spazio pubblico e poi della forma architettonica", anche
questa città, dico, inclusa questa città, soffre di insufficienze e cerca di inventare un futuro
migliore come suggerisce il progetto per il Foro Universale delle Culture.
Perchè questa città non ha nulla di garantito e questo è quello che la rende uguale a tutte le
altre e più sorella con queste.
E' a questo titolo, solo per questo, che mi onoro di accettare la Laurea che mi concedete,
che non concedete a me ma anche alla piccola tribù di architetti (locali e stranieri) ed anche
agli ingegneri, gli economisti, i giuristi, rappresentanti delle comunità di quartiere, le ONG
(Organizzazioni Non Governative), impresari e lavoratori, volontari e funzionari, Sindaci
vari e Consiglieri che hanno contribuito marginalmente da Barcellona a far sì che nel
mondo si pensi che la città ha un rimedio, e che le città non sono la causa dei problemi
della nostra specie, ma solo il loro contenitore e forse, speriamo, lo scenario della loro
soluzione.
Vedo difficile che il mondo possa guadagnare una regola se le città non migliorano, ma
credo possibile che migliorino. Sappiamo che stanno migliorando e chiedo, come Jaime
Lerner, ex sindaco di Curitiba, in Brasile, che le università smettano di parlare della
tragedia urbana per iniziare a contribuire alla sua soluzione; che sarà, non ho dubbi, una
soluzione positiva.
13
�Lección magistral, Reggio-Calabria, martes 26 de Mayo 1998
ARQUITECTURA Y CIUDAD EN UN MUNDO ABIERTO
Pasqual MARAGALL i MIRA
El mundo se nos aparece hoy como una aldea a la que llamamos global. Es decir, que
creemos haber ensanchado los límites de nuestros barrios y calles hasta confines alejados,
gracias a los medios de comunicación, a los viajes, a los cruces familiares y a la mezcla de
culturas.
Sin embargo, mi generación, que ya vivió en los primeros años sesenta en la convicción de
asistir a la mundialización de la política, -- en tiempos de Kennedy, Kruschev y el Papa
Juan XXIII, y del primer Castro, el de los discursos de Sierra Maestra y la entrada en La
Habana --, tiene la obligación de tomar algunas precauciones, después de haber vivido lo
que vino después.
Prefiero hablar de un mundo abierto que de una aldea global o ciudad global; un mundo
abierto al contacto pero también a la incertidumbre.
Creo sinceramente que un mundo de ciudades, -- una Europa de las ciudades en nuestro
caso --, es más atractivo y, lo que resulta determinante, más operativo que el mundo global.
En Europa debemos hablar incluso de una Europa de las regiones y de las ciudades, porque
las culturas que hemos ido creando no siempre han terminado siendo Estados nacionales,
aún siendo en ocasiones culturas nacionales con idioma, literatura y características propias.
Escocia, Flandes, Catalunya, Gales, Galicia, Euskadi, Baviera, etc. serían ejemplos en este
sentido. Irlanda, Eslovenia, Ucrania y otros serían ejemplos de culturas nacionales
europeas que sólo en el siglo XX,-- y algunas muy recientemente--, han obtenido status,
son estado.
Sin embargo, si miramos Europa desde el satélite vemos una constelación de puntos
luminosos. No vemos fronteras, ni estatales ni regionales. Esas constelaciones son las
culturas construidas, físicamente existentes.
Tan sólo observando esa imagen aprendemos ya algo útil sobre el mundo, algo que no nos
dice el concepto de aldea global. La organización de los puntos luminosos, reflejo de las
ciudades, dibuja unos recorridos, señala concentraciones y evidencia vacíos. Se forman
constelaciones densas como el Randstadt, el sur este inglés, el Rühr-Rhin, el triángulo
Génova-Torino-Milán, o la región metropolitana de Nápoles, punto culminante de una
línea costera que aparece como ciudad lineal, lo mismo que ocurre con Barcelona y la
costa mediterránea septentrional española hasta el Golfo de León.
De vez en cuando aparecen estrellas solitarias que normalmente corresponden a capitales
estatales, es decir, son producto no tanto de la aleatoria distribución de las poblaciones en
14
�valles y montes, en costas y llanuras sino de la voluntad racional de un país constituido en
estado,-- o de su monarca --, de ubicar la capital en un determinado punto de la geografía.
Moscú, Petrogrado, Berlín, París, Madrid, casi tanto como Brasilia, muestran una
localización no casual, sino lógica. La lógica de Pedro el Grande o de Felipe II, como la de
Kubitschev en Brasil, o, de nuevo, la de Lenin al devolver la capitalidad a Moscú, era una
lógica de gobierno, una búsqueda de equidistancia o baricentro, una optimización querida
más que un equilibrio hallado.
Es posible que en ciertos casos sea la desertización del entorno provocada por una capital
potente, más allá de los límites de su zona metropolitana de influencia, la que produce la
estrella solitaria.
Este hecho debe hacernos reflexionar. Porque demuestra, contra la hipótesis inicial, la
fuerza de los sentimientos y de las ideas compartidas. Debemos admitir que el mapa que
vemos, ese firmamento invertido que se ve desde el satélite cuando se enfoca el planeta, no
refleja sólo fuerzas materiales y espontáneas sino factores culturales y políticos. Es decir,
que las fronteras, aún si no se ven en ese mapa, actúan sobre él y lo modifican, que el
mundo es aún y quizás más que otra cosa, un mundo de estados,
La apuesta que les propongo, sin embargo, es que, siendo esto verdad, lo es también que el
camino que conduce desde el actual mundo de estados al mundo global, al mundo abierto,
al mundo sin fronteras, es una ruta que pasa por el mundo de las ciudades y por la Europa
de las regiones.
En primer lugar: el mundo global, la ciudad global, el pensamiento de que mi ciudad ya no
existe porque mi auténtica ciudad es el mundo, es una idea poco útil. Se trata de un
concepto paralizante.
Tomemos un ejemplo. En Río de Janeiro 1992, en la Cumbre de la Tierra, donde tantas
cosas buenas sucedieron, no se reparó sin embargo en el carácter ambiguo de algunas de
las conclusiones. “Pensar globalmente y actuar localmente”, se dijo, sin darse cuenta de
que la gente está habituada a pensar antes de actuar y que en consecuencia lo que se les
estaba diciendo es: “No actúe Vd. hasta que no reciba una orden nuestra, una orden global,
surgida del pensamiento global”, que aparece aquí como pensamiento único e inapelable,
igual que el neoliberalismo que nos ha inundado desde aquel noviembre de 1978 en que el
estado de California votó en masa la proposición 13ª contra los impuestos sobre la
propiedad.
El pensamiento global comete errores considerables. En 1974, anunció que el petróleo
duraría 20 años. Y llevamos 24! Otro error: se nos había anunciado que la población
mundial dejaría de crecer en el año 2050, con alrededor de 15.000 millones de habitantes.
Ahora parece que plafonará mucho antes, en el 2015/2020, y con muchos menos
habitantes. Son notables los estragos que la pareja Malthus-Ricardo han venido causando
en nuestras mentes impresionables, aunque también puede pensarse que sus avisos
alarmantes hayan precipitado la solución a los problemas que detectaron. En ese caso,
daríamos sus excesos teóricos por buenas medicinas.
Afortunadamente, en aquel mismo cónclave de Río se dijo otra cosa contraria a la primera:
“Hagan Vd. localmente todo lo que pueda hacerse allí”, como queriendo decir: eviten el
transporte de energía,-- energía pura o cosificada--, tanto como puedan.
15
�Esta afirmación, coetánea y coincidente con el preámbulo del tratado de Maastricht que
afirma que la Unión Europea es una unión cada vez más estrecha entre los pueblos dónde
todo se hará tan cerca como se pueda de los ciudadanos, es en realidad una proclama
revolucionaria que trastorna la constante tendencia de las ideas hacia una universalidad
ingenua, sobre todo a partir de 1789.
En muchas ocasiones la bien intencionada universalidad de nuestras aspiraciones, casi diría
su precipitada universalización, tuvo que ser frenada por la diosa historia, que con la peor
perversidad echó mano de los más eficientes particularismos para hacernos retroceder al
punto de partida: el particularismo de la raza, de la etnia, de la religión, de la lengua y
hasta del acento; el cainismo de las ciudades divididas y de las familias enfrentadas. En
Bosnia las tres comunidades llamadas étnicas son de la misma raza y hablan el mismo
lenguaje, sólo la religión y el acento cambian.
En este punto Vds. se preguntaran qué diablos tiene que ver la arquitectura con todo esto.
Podría decirles, y sería una boutade, pero una boutade verídica, que la pelea entre croatas y
bosnios en Mostar se hizo casi irreversible sólo cuando los croatas del barrio oeste
bombardearon el puente viejo (el Stari Most) que les unía al barrio musulmán del este.
Sólo cuando saltó esta pieza de arquitectura.
Pero bien, más allá de la trágica anécdota, aún hoy por resolver, la arquitectura tiene que
ver con lo que les venía contando porque arquitectura es el arte de construir la ciudad y la
ciudad está ahora volviendo a ser el centro de atención del mundo. Han pasado más de 20
siglos desde que la ciudad apareció como el lugar de la Polis y 15 siglos desde que
desapareció como tal en la llamada larga noche medieval. Para reemerger con timidez o
arrogancia pero siempre fugazmente, en la baja edad media catalano-aragonesa, en la
Hansa y en el renacimiento italiano y para ser finalmente reducida a la categoría de “lugar
en la provincia” a partir del siglo XVI. En aquel instante, los dos mundos, el Viejo y el
Nuevo, empezaron a construir dramáticamente el mundo global, un mundo de naciones; la
ciencia empezó a pensar el planeta Tierra como parte del Universo y la filosofía moral,
algo más tarde, ya en el XVIII, empezó a pensar en su organización política.
Dos cosas deben ser aclaradas aquí. Una: ¿cómo sabemos que la actual globalización es la
definitiva y no otra ingenuidad? Segunda: ¿porqué se supone que la arquitectura construye
ciudades y no simplemente casas y edificios?
La actual globalización no es la buena ni la definitiva. Es una más de las pulsiones
universalizadoras que se han ido sucediendo cíclicamente a lo largo de la historia. A
finales del XIX tanto los financieros como los proletarios eran internacionalistas. Hasta los
aristócratas como el barón de Coubertin lo eran.
El universalismo de Marx en aquella época llegó a un grado importante de consciencia de
sus propios límites cuando anunció que sólo la desaparición de las naciones – para la cual
no fijaba fecha – prepararía el escenario de una sociedad mundial justa.
Pero Marx ignoraba que toda la economía política clásica de la cual formaba parte con
Smith, Malthus y Ricardo, estaba destinada a quedarse corta. La construcción del nuevo
mundo y concretamente la formidable expansión de la agricultura norteamericana, así
como las sucesivas oleadas de emigración europea, hicieron crecer la población
norteamericana no indígena de 4 millones en el momento de la Revolución Francesa a 125
en el inicio de la primera Guerra Mundial, y redujeron, por ejemplo, la población irlandesa
16
�en un 25 % tras el hambre de 1843. Todo esto trastocó las previsiones catastróficas, si bien
redentoras, de una clase obrera universal empobrecida y consciente. Esa clase fue llevada
una y otra vez en Europa a los enfrentamientos nacionalitarios que han convertido nuestro
siglo en una tragedia muy superior a lo que el siglo XIX hacia prever.
También Keynes en 1930 y de nuevo, sin éxito, en 1944-45, defendió la posibilidad de una
moneda mundial y de un auténtico banco mundial, elementos del gobierno mundial que
desde Kant existían virtualmente como propuesta o hipótesis.
Fíjense que hoy estamos asistiendo tan sólo a algunos intentos, difíciles, de crear una
política económica europea para acompañar a la moneda europea que ya ha nacido y de
dotar a la Comisión Europea de un presidente electo, es decir, de empezar a dibujar un
gobierno europeo.
La lección de humildad a que nos han sometido la audacia y la estupidez de nuestras
pretensiones colectivas ha sido en este siglo apabullante.
Se trata de admitir que de momento el mundo global sólo se puede construir a pedazos,
regionalizándolo en su organización y de saber que esa regionalización se establecerá al
nivel que marquen, como tamaño económico mínimo, las economías más grandes. La
creación de los Estados Unidos en 1776 sancionaba para dos siglos más tarde la necesaria
unificación de Europa. ¡Podíamos haberlo pensado antes! ¿Cómo no nos dimos cuenta?
Entre tanto, especialmente en los períodos de paz y de crecimiento económico, el sistema
global tiende a descentralizarse. Relaja las restricciones obligadas por el equilibrio del
terror y la nacionalización de la Polis determinada por ese mismo equilibrio. Dentro de
cada estado-nación las ciudades captan una porción mayor de los recursos públicos, la
educación y la sanidad mejoran a expensas de la defensa, las empresas saltan fronteras y
crean un espacio multinacional en que las ciudades se ofrecen como sedes de sus
establecimientos, compitiendo entre sí para obtener el mayor volumen de inversiones
productivas y de conexiones tecnológicas. El mundo se civiliza.
Pero sólo es un mundo global para algunos y en forma limitada. Es sobre todo un mundo
de ciudades, de lugares dónde las empresas por un lado y los representantes públicos por
otro tratan de hacer frente a las demandas y los problemas de la especie humana.
Parecería lógico apuntar hacia un mundo de ciudades razonablemente regionalizado en
grandes conjuntos (Unión Europea, Mercosur, Grupo Andino, Nafta, etc.) y dotado de unos
principios de comportamiento conocidos por empresas y estados. Volveremos brevemente
sobre esto. Avanzo que ello no significa la desaparición de los estados sino su
transformación de entes productivos y defensivos en entes reguladores de derechos, y
socios activos de uniones transnacionales, cosa que ya está comenzando a suceder – muy
notablemente en la Italia de Prodi y Bassanini y, con dificultades, en la de D‟Alema,
D‟Onofrio y Cacciari, es decir, la Italia de la reforma administrativa y la de la reforma
constitucional --.
Esta es la pulsión universalizadora que nos podemos permitir. Un mundo de ciudades
regionalizado por grandes áreas. Pero sin duda un mundo de ciudades. De otro modo la
gente no lo aceptará. No lo aceptará porque aparecería como un mundo lejano e ignorante
de sus problemas. Globalización, así entendida, y “localización” se dan así la mano.
17
�Queda una segunda aclaración. Las ciudades que componen ese mundo parcialmente
globalizado son el objeto real de la arquitectura.
En ello sigo a los maestros. A los del Renacimiento, a los del movimiento moderno y, hoy,
a Oriol Bohigas, a Richard Rogers y a Renzo Piano.
Y obedezco a mi propia experiencia. En Barcelona, construir casas en la degradada Ciutat
Vella de los primeros 80 no servía de nada si no se actuaba también en sanidad, seguridad
y en urbanismo elemental.
Miren Vds. nosotros llegamos al gobierno de la ciudad en 1979 con la idea equivocada de
que los bajos precios de la vivienda en la Ciutat Vella eran una bendición y empezamos a
hacer planes urbanísticos afectando para equipamiento público todo lo que podíamos.
Error.
Pensábamos que había que actuar de modo que los habitantes de la Ciutat Vella se
quedaran a vivir en ella gracias al mantenimiento de los precios bajos y la nueva oferta de
equipamientos. Otro error. No nos dábamos cuenta de que los precios eran bajos porque la
gente se marchaba. Reaccionábamos así contra una gentrificación que ni se había
producido ni se iba a producir por sí sola. La gente se marchaba a Hospitalet, o a Sant
Andreu (a barrios metropolitanos o periféricos del municipio) en cuanto les aumentaban el
sueldo en la empresa, o tan pronto como una segunda persona de la familia encontraba
trabajo. Sólo los padres ancianos se quedaban por falta de medios y de voluntad de
trasladarse lejos de los lugares dónde toda su vida había transcurrido.
La población de Ciutat Vella ha bajado en un 30 o 40%. Aquellos lugares familiares y
cargados de sentido se iban desertizando. Las afectaciones públicas sin recursos de
inversión inmediatos añadían factores de abandono. La criminalidad iba en aumento. Los
vacíos iban siendo ocupados, en parte, y sólo en parte, por gente que carecía de los medios
precisos para mantener una mínima vitalidad comercial y pública de los barrios, a no ser
mediante la creación de códigos defensivos y ghettos de diversa índole.
La teoría del esquiador era la solución: no sólo urbanismo ni sólo seguridad, sino ambos.
Urbanismo más seguridad, ahora el uno y en seguida el otro. Servicios sociales más
limpieza. Política comercial más vivienda. Prevención antes que corrección, pero en todo
caso prevención y corrección. Ningún dogmatismo, ninguna fórmula mágica. Inversión
pública e inversión privada. Acción pública y ayudas benevolentes. Guerra total a la
miseria.
Primero perdimos, sólo mucho después empatamos y finalmente empezamos a ganar. Y
aún cuando ya ganábamos estallaron las minas abandonadas de antiguos pederastas o el
fariseismo de los contables que se escandalizaban porque se habían comprado y vendido
viviendas a precios distintos. Al igual que mucho antes se habían escandalizado
instituciones benéficas cuando nos pusimos a cerrar las pensiones insalubres donde morían
por poco dinero ancianos para ellos desconocidos y vieron cómo, de repente,
incrementaron sus colas para comer o dormir en alguna parte.
Gobernar la ciudad, es cierto, requiere muchas veces de un cierto disimulo de problemas
lacerantes, en tanto se resuelven sin ofender en exceso la sensibilidad pública – para qué
negarlo. Pero en la mayoría de los casos exige desvelar al público realidades ocultas. El
gobernante pone a la ciudad ante el espejo de sus miserias, en realidad sabidas, solo que
olvidadas, tapadas, ocultas.
18
�Una vivienda nueva en un barrio peligroso no es una vivienda nueva. Esa es la lección que
aprendimos. Esa vivienda nueva se hace vieja rápidamente, como esos chicos y chicas con
cara de ancianos de tanto trabajar demasiado pronto.
La lección es que la riqueza y la miseria colonizan el territorio. La riqueza mediante
precios altos (uptown) y mediante tamaños mínimos de parcela (out of town), y si conviene
mediante policías privadas – como en Caracas; la miseria mediante un arma igualmente
efectiva: el miedo de la clase media a la inseguridad y a la diversidad excesiva..
La verdad es que en la Barcelona tolerante y liberal se redujo la victimación percibida
desde un 25% a un 15% en diez años, es decir, casi a la mitad, mientras en el Londres de la
ley y el orden aumentaba hasta una vez y media también en diez años – bien que lo sabe
Tony Blair, que convirtió este tema en caballo de batalla una vez que la London School of
Economics demostró que el puritanismo radical de Ms. Thatcher y su gobierno condenaba
a los marginales a establecerse sin remedio como tales.
Insistamos por un momento en el carácter colonizador del territorio que poseen tanto la
riqueza como la miseria, porque ello nos lleva a una reflexión metodológica interesante.
A estos efectos externos de los comportamientos de algunos ciudadanos sobre los de otros,
los economistas, mi gremio, les llamamos externalidades, porque son fenómenos que se
producen fuera, en el exterior de las restricciones del modelo. Esas restricciones,
necesarias en todo quehacer científico (no voy a explicar a un público de arquitectos que
un modelo a escala 1:1 añade algo a la colección de los objetos existentes pero nada a la
ciencia que estudia esos objetos), esas restricciones, digo, presuponen en economía la
inter-independencia de las funciones de utilidad y de producción de los distintos individuos
y de las distintas empresas, respectivamente. Toda la teoría del equilibrio de mercado se
basa en la hipótesis de que cada persona optimiza sus decisiones de consumo y de
producción sin relación ninguna con la forma de las funciones de utilidad y producción de
los demás participantes en el mercado. Es cuando esto no ocurre así que la teoría admite
las limitaciones del mercado y la posibilidad de que la intervención pública resulte
justificada. Y no es poca justificación. Las externalidades positivas y negativas, es decir,
las contigüidades entre individuos que producen beneficios imprevistos (mayores
conocimientos en la ciudad, en relación con la vida aislada, que los comprados en el
mercado, p.e.) o perjuicios adicionales (inseguridad ciudadana, etc.) esas externalidades,
repito, no son una base insignificante para construir una teoría robusta de la acción pública
y de la Polis.
Llamo la atención de Vds. sobre la necesidad de adquirir una cierta patente de modestia
antes de lanzarse a la arena de los sermones sobre lo que debería hacerse o simplemente
sobre la necesidad de actuar (en Roma, por ejemplo, esas admoniciones son corrientes). La
gente tiene muy claro que no todo lo público es bueno. Algunos lo tienen excesivamente
claro, como ese encargado de abrir la puerta del camino al cráter del Vesuvio, quien,
pasadas las cinco de la tarde sentencia: “Roma ha dicho que a las cinco y basta; ya se sabe,
los políticos, Italia, tutta la monda ”, como diciendo: vivimos en el reino del absurdo, todo
lo que viene de arriba es malo.
Afortunadamente cuando un país ha adquirido trabajosamente ese espíritu de exigencia que
recomiendo respecto de la acción pública, (a veces dramáticamente por la propia carencia
temporal de sector público, como en la Catalunya anterior a la 2ª República, o la posterior
19
�a la guerra civil), la coraza de auto-exigencia se transforma en actitud propositiva
contundente y fecunda en cuanto se dan las condiciones para la acción.
Este es el origen, según creo, del optimismo exigente de los Bohigas, Solà Morales,
Acebillo, Busquets, Llop, de Lecea, que se desbordó sobre las calles y plazas de Barcelona
a partir de 1980.
Y éste es también el que yo espero que se esté haciendo presente en Calabria y en general
en el Sur de Italia ahora que los excesos de un estatalismo mal entendido y la enfermedad
de la colusión y la “protección” privada empiezan a dejar paso a la libertad creativa. Un
nuevo renacimiento se presiente en la Italia totalmente europea de hoy, que resuelve
satisfactoriamente una ecuación que no se le plantea a España, a saber, la de edificar una
sociedad moderna en un espacio que atraviesa tantos paralelos como los que van de
Alemania al Norte de Africa. El rol de las ciudades en ese proceso está siendo decisivo.
Vds. están culminando su periodo de gestación de ideas nuevas, el período de la química
del consensus building, mucho más largo y lento que el de la física de la transformación
urbana. Las obras, aunque a veces nos parezcan una eternidad, son rápidas en comparación
con el tiempo empleado en la generación de consensos sobre los grandes proyectos.
Gioia Tauro, el puente de Messina, el tercer carril de la autopista, la llegada del tren de alta
velocidad etc.. habrán sido proyectos largamente esperados, pero no por ello menos
revolucionarios en el momento de su realización, ni menos cargados de efectos.
Detengámonos un momento en este punto antes de entrar en la parte final de la disertación.
Es probable que la justicia histórica consistiera, de existir, en una especie de distribución
salomónica de los grandes proyectos a lo largo de las décadas y de los distintos territorios,
posiblemente con un ligero favoritismo a favor de los territorios alejados del centro del
sistema de ciudades, para compensar el hecho de que la proximidad al centro trae consigo
una densidad de contactos que hace innecesario el shock exterior o instantáneo de las
grandes iniciativas. (Digo favoritismo ligero para no salirme de la modestia metodológica
con respecto a la acción pública).
Esa distribución ideal debería ser consciente de una especie de derecho humano nunca
formulado – pero presente en la historia y que explica, por ausencia, muchas rebeliones –
según el cual todos tendríamos que haber vivido algún momento de esperanza y alguno de
realización en el curso de nuestras vidas.
El hecho es que ese ciclo está lejos de producirse. La generación de mi abuelo paterno
(1860-1911) no llegó a vivir ninguna gran guerra. Karl Polanyi llegó a bautizar como “100
años de paz” a los que transcurrieron desde el final de la última guerra napoleónica y el
inicio de la primera guerra mundial. Inútil insistir en el porqué del internacionalismo
generalizado del cambio de siglo.
En cambio la generación de mi padre, que nació en el mismo 1911, vivió enseguida una
guerra mundial, una guerra civil terrible (la primera en que una gran ciudad fue
bombardeada desde el aire – Barcelona – y otra totalmente destruida – Guernica - ), y una
segunda guerra mundial, en la cual dos grandes ciudades fueron arrasadas ya con una sola
bomba.
20
�Recordemos aquí a Kenzaburo Oé, el premio Nobel japonés que decidió escribir sobre el
absurdo de Hiroshima por el absurdo presente en su propia vida familiar. Oé creo que dijo
de Hiroshima que la tragedia de la desaparición de la ciudad es que la muerte de una
persona no impide su pervivencia en la memoria de los demás, en tanto que la muerte de
una ciudad equivaldría a la desaparición de la memoria misma. Muere cada persona y cada
una de las que han convivido con aquella. Desaparece la memoria.
Es claro que no hay justicia distributiva en la historia y, sin embargo, o por eso mismo,
debemos esperar agazapados el paso del tren de la fortuna, y si es preciso construirle a la
fortuna un atajo. En eso consisten los grandes eventos. Algunas veces no son más que
anuncios de una era largamente esperada, excusas que la historia se toma para presentarse
de repente, espléndida, con el regalo de los sueños cumplidos.
Llamemos de nuevo a la arquitectura a su cita con la historia. La mejor noticia para las
víctimas del terror vasco, incluidas las familias de los propios terroristas, es la
inauguración del Museo Guggenheim de Bilbao y, por supuesto, la evolución de las cosas
en Irlanda del Norte. El Museo de Ghery y el Metro de Foster, han roto el maleficio de una
ciudad (y esperemos también de un país) solo vistos en función de la tragedia y de la
muerte y que empiezan de nuevo a ser imaginados como escenario de la construcción y de
la vida, frustrando así la obsesión temerosa que es técnicamente el objeto de toda política
de terror.
La Expo de Lisboa, los Juegos de Barcelona, el tren de alta velocidad en Sevilla, con
motivo de la Expo del 92, he aquí otros tantos momentos en que la chispa del
acontecimiento parece haber puesto en marcha el motor de la evolución.
Fui uno de los pocos catalanes que se alegraron públicamente del tren de alta velocidad
Madrid-Sevilla aún sabiendo que el Madrid-Barcelona y el Barcelona-frontera francesa
eran más rentables, y conociendo la parsimonia excesiva que este tema tiene en las agendas
de Madrid y París. Acepté por bueno el argumento de Felipe González en el sentido de que
el tren Madrid-Francia acabaría por hacerse y de que en cambio no era tan evidente que el
Madrid-Africa llegase a existir en muchísimo tiempo. Defendí que era interesante para
Barcelona no ser un cul-de-sac, no ser el nuevo nombre del sur de Francia, sino terreno de
paso para el eje centroeuropa-penínsulaibérica, entendiendo que ésta era y es una reserva
de riqueza cultural y económica para la acción de mi ciudad y no sólo un lastre o una
amenaza como algunos creen y, digámoslo todo, como la historia, desgraciadamente, ha
demostrado más de una vez. A Barcelona le interesa una península ibérica rica y feliz y no
lo contrario, una España cabeza de puente hacia Latinoamérica y el Magreb y no
interiorizada y quejosa.
Si los valles del Pirineo, antes opuestos entre sí, han aprendido a colaborar; si en la
ceremonia de perforación del túnel del Puymorens, en la línea Barcelona-PuigcerdàToulouse, estaban presentes los alcaldes o cónsuls de Andorra, que son partidarios de otros
túneles y otros ejes, las ciudades no pueden ser menos. Lo digo porque Reggio-Calabria
debe apostar fuertemente por el puente con Sicilia, independientemente de por dónde pase
con exactitud. No es un problema, creo, de bares en la carretera, sino de fertilización del
hinterland. [CONSULTAR F ZAGARI]
El mundo de ciudades va a ser muy competitivo pero precisamente no admite nostalgias ni
excusa pasividades. Se trata de elegir la mejor solución y apostar fuerte por ella. Y si no es
la buena, cambiarla.
21
�Se trata también de hacer y de explicar. La gente quiere hechos pero quiere también y
además la explicación de los hechos. Quiere ver y tocar pero también escuchar.
En una de las últimas sesiones de mis seminarios en la universidad romana constaté hace
pocos días la fuerza que tiene la inercia de muchos años de pesimismo aceptado, aún ante
la evidencia de que las cosas cambian.
Propuse entonces un análisis lúcido de las dificultades y las virtudes de Roma como
preámbulo para un teórico Plan Estratégico.
En el lado pasivo la carencia de sentido del presente como antesala del futuro; la carencia
de moral de lucha; y la carencia de un leadership simple. En el lado de los activos, aparte
de los ya sabidos y archisabidos puntos fuertes de Roma, una reflexión sobre la
sostenibilidad y otra sobre la vocación de la ciudad.
Quizás en alguna medida estas ideas sean válidas para otras ciudades italianas que conozco
menos.
El pasado pesa tanto aquí que el futuro es un tema menor.
En comparación con Madrid y Barcelona, Roma vive en el peor de los dos mundos: es la
capital, ya lo hemos visto, culpable de todo, y sin embargo – o por eso mismo – el estado
no invierte en ella mas que una pequeña proporción de lo que los romanos consideran
mínimo necesario. Por otra parte, siendo una ciudad que depende mucho de sí misma,
incomparablemente más que Madrid o París, no puede formular una mística o una épica de
ciudad-ciudad, de selfmade city, como Barcelona: nadie se lo creería, al menos de entrada.
La sobreposición de los poderes religioso, cultural-arqueológico y municipal, siendo así
que éste último es más fuerte y está más legitimado que nunca, no facilita las cosas.
En cambio Roma debería reflexionar con más tranquilidad sobre el hecho de que ninguna
ciudad se ha demostrado por el momento sostenible a largo plazo con las actuales
prestaciones. ¿No hablamos sin cesar de sostenibilidad? Pues bien, Roma es más
sostenible,-- en los términos en que funciona, ciertamente no óptimos --, que bastantes
ciudades que hoy parecen bien colocadas. Roma conoce el arte de envejecer dignamente y
no es seguro que este arte no vaya a ser necesario al final para casi todas las grandes
ciudades. Para empezar los romanos poseen un alto grado de capacidad de convivir con un
medio intocable, estrecho, y cargado de símbolos; y un aprovechamiento remarcable del
espacio/tiempo. Deberían sacar mayor provecho de esas cualidades.
Dicho esto, es evidente que nadie puede subsistir sólo conservando. Si no hay nueva
construcción la ciudad no se sostiene, ni siquiera lo viejo pervive. Todas las ciudades
deben hallar su propia fórmula de combinar los símbolos existentes con los nuevos. Sin
éstos últimos la antigüedad se convierte en repetición.
Por último, ninguna ciudad del mundo tiene tantos créditos como las ciudades italianas
para entender y representar a un mundo que es cada vez más un mundo de ciudades. Los
franceses y los españoles, y los ingleses, pueden saber más de naciones y hasta de
imperios, porque los suyos fueron más recientes. Pero nadie puede enseñar mucho, ni a
22
�Roma ni a las ciudades italianas, respecto de lo que es una ciudad y de lo que una ciudad
significa.
Y les aseguro que el futuro de las naciones se va a jugar en la eficiencia de sus sistemas de
ciudades.
FINAL
La experiencia de un Alcalde no se puede explicar del todo sin una confesión, entre
muchas.
Se trata de la emoción con que por arte de la arquitectura y de la construcción aparecen en
la ciudad nuevos símbolos destinados a durar.
No me refiero tanto a la función como al valor de esos artefactos construidos. Plazas o
casas, árboles plantados en un determinado sitio o en un orden determinado, monumentos
nuevos o recuperados o desplazados, mobiliario urbano más o menos estable y resistente,
escuelas, aceras y paseos, torres de comunicación, muros de contención, diques, teatros:
todos ellos son teatro de la vida, mensajes lanzados más o menos conscientemente como
botellas en el mar al curso de la historia, referencias a veces excesivas de nuestro paso por
la ciudad, pero en todo caso visibles, corpóreas, criticables, acción devenida objeto, que
miles de ojos miraran con respeto o ignorarán, que miles de manos y pies pisarán, o
tocarán o cambiarán, y que hacen de la ciudad uno de los pocos conceptos resistentes de
nuestro presente y de nuestro futuro, uno de los conceptos más universales, porque
universal y común es la experiencia que de ellas tenemos.
Pues bien, si hay una profesión que tiene la llave de su modificación, con permiso del
sovraintendente, erigido en controlador de esos valores, dramático deber virtual e
incumplible, esa profesión es la de Vds., lo cual les convierte a Vds., a su profesión, en uno
de los sueños más extendidos entre la juventud, a la altura de los actores de esa
construcción inmaterial pero mágica que es la representación escénica. No por casualidad
el Congreso de la UIA en Barcelona en 1997 se convirtió en un dualístico rito de masas y
vedettes, todos de la misma profesión.
(Debo decir que estoy muy agradecido a Norman Foster y Kenneth Frampton por haber
captado al vuelo de qué se trataba y haber aceptado convertir la Plaza dels Angels, también
llamada de las Nacions, delante del blanco del MACBA, en el escenario del mejor debate
arquitectónico. Posiblemente ningún congreso de arquitectos pueda ya privarse en delante
de un debate en la dura piedra de la ciudad y el foro y el ágora vuelvan a su función).
El primer presidente de la Generalitat restituida, Josep Tarradellas, insistía entre irónico y
sincero, con esa sonrisa de campesino tan difícil de descifrar, pero tan seductora, en que él
hubiera deseado ser alcalde, "Porque Vd. señor alcalde, decía, las obras las ve y las toca, y
Vd. a la gente la encuentra por la calle, y yo ¿sabe qué hago? ¡Yo sólo firmo decretos!".
Expresaba así la amargura no exenta de majestad del representante de un poder abstracto,
como es la nación, que no es corpóreo, que existe ¡y con qué fuerza a veces! pero sólo en
la cabeza de la gente y en las líneas falsas o irreales que en los mapas separan a un país de
otro. Fuerza inmensa que ha permitido los mayores progresos y causado las mayores
catástrofes, pero fuerza ideal, no realidad tangible.
23
�En Barcelona, después de 40 años de dictadura, llegamos, en un momento dado, que no fue
corto, a una euforia continuada de eclosiones constructivas. Como una primavera que se
hace esperar y cuando llega sorprende por su intensidad y su belleza, como esas gardenias
que tardan tanto en salir, que nunca acaban de florecer, pero cuando lo hacen desbordan lo
imaginable, en cantidad, en aroma y en el blanco de sus pétalos.
Eso ocurrió en Barcelona... y sigue ocurriendo. He estado ocho meses fuera, viviendo en
Roma y realizando cuatro desplazamientos a Latinoamérica y Norteamérica. En esos
desplazamientos y también en Navidad y Semana Santa he vuelto a pasar por Barcelona.
Cada vez he encontrado cosas nuevas.
La sensación que esto produce es difícil de describir. En Barcelona se ha llegado en los
últimos 20 años a equiparar ciudad con mejora. El ojo se ha acostumbrado no a unas
formas sino a unos ritmos de evolución de las formas. Ritmos sometidos a unos principios
de calidad algunas veces violados, sin duda, incluso violentados como cuando cae el garfio
de hormigón de Chillida o cascotes de piedra de Montjuic en el Ensanche, o cuando una
torre de comunicaciones, la pequeña, la de Telefónica en Montjuic, se ubica doscientos
metros dentro de un escenario que debía haber punteado, en todo caso, desde fuera, como
una referencia respetuosa y útil.
La otra torre de comunicaciones, la de Foster, resultado de un cuidadoso proceso de
aceptación profesional y social, y luego de selección, conducido por Juli Esteban y Joan
Busquets, está menos fuera de escala de lo que pueda parecer. Un filósofo amigo me decía
que tapándola de la vista con la mano se recuperaba la escala de la sierra y el equilibrio de
su skyline, que de otro modo resulta miniaturizado, encogido por la relevancia inmensa de
la torre. Y es verdad: pueden probarlo la próxima vez que vayan a Barcelona. Sin embargo,
la torre aparte su originalidad y elegancia, que supera el funcionalismo excesivo de las
torres habituales de hormigón, está hecha a escala de otra ciudad distinta y mayor que la
que se ve de éste lado de la sierra: corresponde a la escala de la ciudad metropolitana, la
ciudad de 3-4 millones que rodea la sierra por los dos lados. Ahora la torre nos sitúa muy
pronto, desde lejos, cuando volvemos a casa desde la montaña o la costa. Y cuando
estamos en casa nos recuerda que la ciudad real en la que estamos no es exactamente la
que vemos.
Lo digo muy a pesar mío, porque soy de los que creen que una ciudad es más difícil de
gobernar si no se ve. Tanto es así que propuse trasladar el consejo plenario del
Ayuntamiento al último piso del edificio Novísimo, una vez suprimidas tres de las doce
plantas del mismo y recuperado el skyline de la ciudad vieja desde el mar. Siempre pensé
que el peligro de las torres, tanto las de comunicaciones como las de la Villa Olímpica, era
el de abrir una competición multiplicadora de esos artefactos, de los cuales cada
generación debería construir unos pocos, poquísimos, cum grano salis. Manhattan y San
Giminiano no son fenómenos fácilmente replicables.
Los incidente arquitectónicos singulares, cuando suceden en un entorno caracterizado por
la movilidad, son menos dramáticos, o mejor dicho, son actos de un drama que no termina
ahí, que sigue, que no inquieta por su irreversibilidad.
La confianza de la ciudad en sí misma es entonces inmensa. El crédito de la acción pública
es casi infinito.
24
�Muchas emociones positivas sumadas, como los jardines de Elias Torres en Villa Sicilia o
el parque de Berverly Pepper, muchos balcones nuevos sobre la ciudad, como el portentoso
podium de Gae Aulenti sobre el oeste de la ciudad, o el Parc del Migdia un poco más
arriba, o aún los bordes laterales del cinturón de Acebillo en la Ronda de Dalt con vistas
inéditas sobre el llano de Barcelona y hacia la ladera de la sierra que allí empieza a
empinarse, o la operación de llenar de sentido puntos de la ciudad carentes de lectura,
como la plaza del General Moragues junto al puente de Calatrava dónde la gente estalló de
alegría cuando el escultor Ellsworth Kelly subió a la tarima a saludar, lo que le hizo
exclamar: ¡es la primera vez que un escultor es aclamado como un músico!
Todo ello ha hecho de la ciudad una realidad poliédrica, casi un caleidoscopio, en menos
tiempo del que habitualmente se emplea en cambiar la visión de un objeto complejo.
Ha sido y es una época énivrante que los dioses, el estado y los arquitectos han regalado a
la ciudad... pero que nosotros (y ahí incluyo a la ciudad y los arquitectos, a la comunidad
comitente y artífice) habíamos buscado denodadamente durante décadas, décadas de
silencio, de frustración, de esbozos y de búsquedas que, sin embargo, sirvieron para
cristalizar la más preciada de las joyas de la ingeniería social: el consenso sobre proyectos,
sobre grandes proyectos.
Soy consciente de estar retándoles a Vds. indirectamente a aceptar que la fase actual de la
construcción y de la arquitectura italianas tiene algo de inevitable, y esperemos, de lo que
los católicos llaman adviento, oscuridad precursora y necesaria, ruido de ordenador que
computa previamente, desasosiego del joven que todavía no accede a la realización madura
de sus proyectos, y eso después de muchas vejeces y senectudes, de mucho clasicismo, en
el país de la memoria, de lo ya hecho, dónde la necesaria adición de originalidad en que
todo arte consiste deviene una proeza casi imposible.
Tómenlo como una provocación amistosa de un excónsul de la provincia Layetana.
Excónsul que hoy se pregunta si los tiempos no nos depararán en nuestra ciudad un castigo
futuro, una compensación negativa a tanta emoción vivida, a tanta realización de sueños
antiguos en poco tiempo: un reposo obligado o dictado por los que pueden tener la
sensación de que ya dieron a la ciudad, desde niveles de gobierno más altos, todo lo que se
merecía.
La mayor parte de la cosas que se ven hoy nuevas en Barcelona son posteriores a 1992: el
parque del nudo de la Trinidad, el Hotel Arts, l„Illa Diagonal, la plaza de las Glorias, el
Port Vell y la Rambla del Mar, el MACBA, el CCCB, los nuevos espacios en la Ciutat
Vella, el museo Barbier-Müller, la renovación parcial del monasterio de Pedralbes, el
gótico y el románico nuevamente instalados en el Museo Nacional de Catalunya, el Teatro
Nacional, el lento Auditorio de Moneo aun sin terminar, el incendio y reconstrucción del
Liceo, la civilización de las avenidas automovilísticas (Aragón-Guipuzcoa, Meridiana,
Gran Via, Mistral) con aceras ampliadas gracias a la disminución del tráfico central
permitida por las rondas (menos 15%), el avance de la Diagonal hacia el mar, la
recuperación de las antiguas fábricas de material ferroviario para vivienda, las escaleras
mecánicas al aire libre en los barrios altos (Carmelo y Ciudad Meridiana), el World Trade
Center y así iríamos siguiendo.
No he venido a Reggio-Calabria a recitar ni un memorial de elogios ni uno de agravios de
mi ciudad aunque son muchas las cosas que los niveles más altos de gobierno deberían
haber hecho y no han hecho en este periodo para acompañar desde arriba el esfuerzo de la
ciudad sobretodo en el terreno de los transportes y de la logística. Y en la aprobación de la
25
�nueva ley de la ciudad y todo lo que ello representa. Sin duda a una ciudad que mejora
tanto y tan deprisa debía llegarle un freno exterior. Pero ella misma no ha dejado de
mejorar y el freno exterior saltará tarde o pronto.
Sólo quiero que sepan que ésta ciudad por tantos considerada como modelo, ésta ciudad de
la que Andrea Rinaldi ha dicho con exceso evidente: “ mentre la Italia insegue dormendo
el sogno del suo glorioso passato ... mentre in Francia la architettura en piena forma si
visualizza in isolate opere monumentali ... mentre a Berlino l‘IBA e le trasformazioni in
atto dopo la caduta del Muro si evidenziano alla scala dell‘edificio inteso come pieno
capace di ordinare lo spazio circostante,... a Barcellona il processo si inverte e le
trasformazioni si originano prima al livello dello spazio pubblico e poi della forma
architettonica“, - sólo quiero que sepan que también ésta ciudad, incluso esta ciudad, sufre
de insuficiencias e inventa futuros mejores, como el sugerido por el proyectado Forum
Universal de las Culturas.
Porque esta ciudad no tiene nada garantizado. Y esto es la que la hace igual a todas las
demás y más hermana de ellas.
Es con éste título, sólo con éste, que me atrevo a aceptar la Laurea que Vds. me
conceden, que no me conceden a mí sino a la pequeña tribu de arquitectos (locales y
forasteros) pero también ingenieros, economistas, juristas, representantes vecinales, ONGs,
empresarios y trabajadores, voluntarios y funcionarios, alcaldes varios y concejales que
han contribuido marginalmente desde Barcelona a que en el mundo se piense que las
ciudades tienen remedio, es más que las ciudades no son la causa de los problemas de
nuestra especie sino su contenedor y quizás, esperemos, el escenario de su solución.
Veo difícil que el mundo se arregle si las ciudades no mejoran y creo posible que mejoren.
Sabemos que están mejorando. Y pido, como Jaime Lerner, exalcalde de Curitiba, Brasil,
que las universidades dejen de relatar la tragedia urbana para empezar a contribuir a su
desenlace, que será un desenlace positivo, no lo duden.
26
�
Dublin Core
The Dublin Core metadata element set is common to all Omeka records, including items, files, and collections. For more information see, http://dublincore.org/documents/dces/.
Title
A name given to the resource
01.01.02. Activitat acadèmica
Description
An account of the resource
Recull la documentació relacionada amb l'activitat acadèmica de Pasqual Maragall:
- Escola primària: Escoles Virtèlia (1945-1957).
- Llicenciatura en Dret: Facultat de Dret de la Universitat de Barcelona (1957-1964).
- Llicenciatura en Econòmiques: Facultat d'Econòmiques de la Universitat de Barcelona (1958-1965).
- Pràctiques de Dret Europeu (1963): estada a Estrasburg (França) per realitzar unes pràctiques de Dret Europeu a la Facultat Internacional de Dret Comparat.
- Pràctiques a Roma (1964): beca per estudiar planificació regional a la SVIMEZ (Associazione per lo SVIluppo dell'industria nel MEZzogiorno).
- Pràctiques amb Delors a París (gener-juny 1966): beca del Govern francès per l’estudi de planificació regional. Realitza unes pràctiques com a economista a l'Association pour l'organisation des STages En France (ASTEF) on obté el Diploma de planificació sectorial i regional. Les pràctiques les fa al Comissariat del Vè Pla amb el professor Jacques Delors.
- Postgrau a la New School for Social Research, New York, amb beca Fulbright (setembre 1971-setembre 1973): Master of Arts en economia, especialitzat en economia internacional i economia urbana.
- Doctorat (02/03/1979): en Ciències Econòmiques a la UAB. La tesi doctoral Els preus del sòl urbà. El cas de Barcelona (1948-1978), la va dirigir el catedràtic Josep Maria Vegara Carrió i va obtenir una valoració "Summa cum laude".
Type
The nature or genre of the resource
Sèrie
Date
A point or period of time associated with an event in the lifecycle of the resource
1945-1979
Dublin Core
The Dublin Core metadata element set is common to all Omeka records, including items, files, and collections. For more information see, http://dublincore.org/documents/dces/.
Title
A name given to the resource
Lezione Magistrale di Pasqual Maragall i Mira, honoris causa della Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria
Language
A language of the resource
Italià
Castellà
Spatial Coverage
Spatial characteristics of the resource.
Università degli Studi Mediterranea (Reggio Calabria)
Abstract
A summary of the resource.
Lliçó magistral de Pasqual Maragall llegida en la recepció de la distinció honoris causa en Arquitectura de la Università degli Studi Mediterranea de Reggio Calabria.
Type
The nature or genre of the resource
Conferència
Format
The file format, physical medium, or dimensions of the resource
Textual
Creator
An entity primarily responsible for making the resource
Maragall, Pasqual, 1941-
Subject
The topic of the resource
Globalització
Ciutats
Europa
Barcelona
Arquitectura
Alcaldes
Model social
Acció política
Homenatges i distincions
Date
A point or period of time associated with an event in the lifecycle of the resource
1998-05-26
EAD Archive
The Encoded Archival Description is a common standard used to describe collections of small pieces and to create hierarchical and structured finding aids.
Level
The hierarchical level of the materials being described by the element (may be other level too).
Document
Discursos i conferències